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Mamma e Papà mi hanno scritto questo....1 anno dopo che ero nato: "….Gli dovremo volere un po’ più bene" In un mondo in cui i termini "maternità" e "paternità" sono sicuramente fuori moda (nei fatti più che nelle parole) non è difficile per chi sceglie o accetta responsabilmente di avere un figlio,vivere questi stati di vita in modo direi quasi privilegiato, con una intensità emotiva tutta particolare e perciò ricca di significati, e di conseguenza decisiva per la propria vita. Abbiamo deciso di raccontare la nostra ancora breve esperienza di genitori (nostro figlio ha poco più di un anno) per chi ci sembrava bello e giusto, e perchè siamo convinti di avere ricevuto un ulteriore privilegio, un dono che non possiamo non provare a comunicare e a condividere con tutti: nostro figlio è handicappato, affetto dal più comune degli handicap, la sindrome di Down, più nota sicuramente come "mongolismo". Sappiamo che a molti questo potrà sembrare paradossale, e proprio per questo motivo ci siamo decisi a scrivere queste righe; vorremmo con esse raccontare (non convincere, nè dimostrare ma semplicemente "raccontare" come sia stato possibile, anzi quasi inevitabile per noi prendere coscienza di essere dei genitori privilegiati, oltre che felici. Ci proviamo. Dopo quattro anni di matrimonio, eravamo alla "nostra" seconda gravidanza. Il nostro primo bambino non ce l'aveva fatta a venire al mondo ed era morto durante il terzo mese di gestazione, come ormai sempre più spesso capita a tante coppie. L'esperienza è di quelle che lasciano un segno; tuttavia questa gravidanza andava proprio bene. Da un punto di vista strettamente medico il bambino era cresciuto normalmente e la mamma non aveva avuto dei grossi disturbi, nemmeno nei primi mesi. Da un punto di vista psicologico.... tutti sanno quali sono i sentimenti che in misura maggiore o minore a seconda della sensibilità personale precedono e accompagnano il concepimento e la nascita di un figlio (specialmente se è il primo). Oltre la gioia, la speranza dell'attesa, il fascino del mistero, ci sono anche la paura dei cambiamenti nei rapporti con il partner e nelle proprie abitudini di vita, il timore di non essere "capaci", sia di accudire il bimbo che più in generale di educarlo nel modo migliore; e poi c'è lo spauracchio del parto ( fortunatamente in via di sdrammatizzazione grazie anche ai corsi di preparazione, che forniscono un valido aiuto sia sotto il profilo "fisico" che psicologico) e le preoccupazioni per la salute della mamma e del bambino. Per noi c'era inoltre una tensione un po' nascosta, fatta di paura e di speranza, che ci portavamo dentro dopo l'esperienza della prima gravidanza non portata a termine. Tutte queste preoccupazioni, che si uniscono alla gioia dell'attesa, sono patrimonio comune di tutti; l'unica differenza è che qualcuno, anche se in buona fede, le può usare come pretesto e come giustificazione per non avere figli. Noi le abbiamo subito accettate come inevitabili compagne della nostra vita di sposi prima, e di genitori in attesa poi e ci siamo abituati a convivere con esse, imparando piano piano e inconsapevolmente a rendere più costruttiva possibile la separazione che c'è sempre nel cuore di ognuno fra sentimenti solo in apparenza contrastanti: e questo quando nacque Dario ci fu molto utile. Venne anche quel giorno stupendo e indimenticabile: il travaglio fu breve , ma intenso, il parto andò benissimo. Vivemmo insieme questa bellissima esperienza nella condivisione, compartecipando profondamente dei sentimenti dell'altro, ognuno in quel ruolo che la circostanza e 1a natura ci avevano imposto. Quando Dario (un bellissimo bambino con gli occhi blu e neanche un capello sul testone, che pesava 3,750) venne alla luce, fu un'esplosione di gioia. Lo fu almeno da parte nostra perché il personale ospedaliero della sala parto, come ci dissero poi, diventò improvvisamente taciturno. noi non ce ne accorgemmo affatto, forse perché "pieni" della nostra gioia, forse perché ci sembrò naturale che gente di mestiere non dovesse riuscire a condividere la felicità che ci pervadeva, ma non era così. In loro c'era invece tristezza per una cosa che loro sapevano e noi ancora no, imbarazzo per la nostra gioia che forse credevano destinata a durare poco. Alla mamma erano toccate la fatica e il dolore del parto.
A me, il
papà, che nel frattempo aveva seguito il bimbo nella sala dove lavano e
visitano i neonati, toccò invece la fatica di scavare in questo muro di
imbarazzo misto a pudore, aiutato da qualche timido accenno del medico
pediatra sull'esistenza di un lieve problema di ipotonia
muscolare. Alla fine capii che dovevo fare delle domande esplicite ...
aspettavano questo da me. Quando lo feci ottenni delle risposte
esplicite, anche se non esaurienti: nostro figlio era sicuramente
affetto dalla sindrome di Down, conosciuta dai più come mongolismo.
Molti sentimenti ti invadono il cuore e la mente in un momento come
questo per non lasciarti più. Bisogna subito accettarli tutti, come
parte di te, anche quelli. che non ti piacciono, e trasformarli in
ricchezza interiore. La posta in gioco è la felicità futura tua e di
tutta 1a tua famig1ia. Mi chiesero se volevo dirlo io alla mamma, come
se potesse ragionevolmente esistere "un'alternativa per due persone
che si vogliono bene. "Ci mancherebbe altro" risposi. Ora,
ripensandoci a freddo penso che il mio atteggiamento deciso, anche se
chiaramente un po’ "scosso", stupì più di una persona.
Solo in questa luce riesco ora a capire l'imbarazzo che ci aveva
circondato sino a quel momento, che esprimeva innanzitutto l'attesa
strategica di chi non conosceva la persona che aveva davanti e temeva la
sua possibile reazione. Ora comprendo e ringrazio per tanta inevitabile
delicatezza, anche se un po' deludente sotto il profilo
dell'informazione. Capisco anche come sia facile una reazione violenta,
sbagliata da parte di genitori che, magari i già poco disponibili sotto
il profilo umano, vengono messi a conoscenza in modo troppo brutale e
sbagliato di una realtà che è già "difficile" per
sua natura (quanti bambini handicappati non vengono accettati e
riconosciuti dai loro genitori e vengono abbandonati in ospedale). Ora,
improvvisamente, ero costretto a passare da un ruolo all'altro: da colui
che riceve a colui che comunica. Ancora avvolto nella confusione dei
miei sentimenti, attendevo la mamma fuori dalla sala parto, con nostro
figlio in braccio che suscitava in me una tenerezza incredibile, al
limite del dolore, cercando il modo migliore per comunicare questa
"sorpresa "alla compagna della mia vita. Sapevo che era gia
provata fisicamente e psicologicamente dal parto appena concluso, e
perciò volevo prepararmi un bel discorso; ma chiaramente quando lei
finalmente arrivò, improvvisai. Avevo chiesto, se fosse possibile che
ci lasciassero soli un po', noi e il nostro bambino. Lo fecero volentieri. "Ti seguo ... anzi ti seguiamo!" dissi alla mamma che usciva dalla sala parto sul lettino. Poi, nella piccola stanza dove fummo lasciati soli gioimmo insieme del frutto del nostro amore. Le parale che adoperai per comunicare (essere in comunione) quel "qualcosa in più" perdono di significato di fronte alla risposta immediata e stupenda che ne ebbi: "Vuol dire che gli dovremo vo1ere un po' più bene". E mentre mi diceva queste bellissime parole, stringeva forte il bambino che le avevo dato in braccio, senza trattenere le lacrime. Qualche ora dopo mi confessò:"Sai, non avevo proprio capito, dalla tua faccia, che c’era qualcosa che non andava". Fui immensamente felice di saperlo, perché fu la prova che nella confusione dei sentimenti che assediavano il mio cuore, la gioia era la più forte. I momenti ed i giorni che seguirono furono intensi e ricchissimi. Li vivevamo separatamente: Dario nella "nursery", la mamma nella sua camera di ospedale a prendere confidenza con quella creatura, a insegnargli a nutrirsi (faticava non poco a causa di un difetto cardiaco), il papà in giro a raccontare a parenti e amici la nostra gioia per la nascita di Dario, così come lui è. Non fu facile far capire così, a parole, che la felicità era la stessa, che il dolore e la preoccupazione che pur c’erano in noi pensando al futuro del nostro bambino erano qualcosa in più, di diverso, che nulla toglievano alla grande gioia che ci pervadeva. In molti ci capirono e condivisero la nostra gioia, oltre che in seguito il nostro cammino, alcuni non compresero. L’esistenza di tanti sentimenti contrastanti, ognuno dei quali aveva un’intensità incredibile si rivelò comunque alla fine una ricchezza: una volta accettata (e grazie a Di ci fu donata questa capacità immediata) la necessità di far convivere la gioia con lo stupore, il dolore, la preoccupazione, la ribellione, lo smarrimento, non potemmo far altro che "gustare" nella riflessione e nella convivenza (tornati a casa dall’ospedale Dario e mamma) questo periodo sicuramente unico e privilegiato. La domanda più ricorrente che ci ponevamo nell'intimo era;,"Potrà nostro figlio essere felice?" e se potrà, saremo noi in grado di "renderlo" felice? Dei primi giorni è bello anche ricordare l'incontro umano, pieno di significativa e sincera amicizia, avuto con alcune persone all'interno dell'ospedale. Due ostetriche, Giordana, tante neo-mamme compagne di degenza; rapporti che continuano anche ora, ad un anno di distanza. E poi c'erano gli amici di sempre... Quelle persone che, sapendoci credenti, ci chiedevano se fosse la fede ad aiutarci ad essere cosi sereni, ho sempre risposto che dalla fede non ci veniva nessun aiuto se non quello di aiutarci a vivere coerentemente la nostra umanità anche in questa esperienza. E questo chiunque lo può fare. Al periodo di "contemplazione" seguì. poi quello dell'"azione". Cominciammo ad informarci su tutti gli aspetti in qualche modo collegati all'assetto cromosomico di Dario, sia da un punto di vista medico-scientifico (e qui si apre un capitalo a parte) e sociologico che, soprattutto, da un punto di vista educativo. Certi come eravamo che il nostro ruolo di genitori era insostituibile e sicuramente determinante fin dalle prime settimane per lo sviluppo armonico di tutte le potenzialità del nostro bambino, volevamo essere protagonisti della sua educazione.
Oltretutto spesso ci giungevano consigli, anzi esortazioni molto precise in questo o quel senso da persone che parlavano solo per sentito dire mentre, quasi a farlo apposta, ricevevamo pochissimo aiuto da quelle persone che per loro competenza professionale avrebbero dovuto e potuto indicarci la strada più opportuna da seguire. L'incontro con la struttura pubblica non è stato in questo senso molto incoraggiante, in quanto l 'impressione fu che il personale tendesse a deresponsabilizzarsi scaricando su noi genitori delle scelte che non dovevano e potevano competerci. L'incontro con una persona ci aiutò ad orientarci nel labirinto delle proposte. "Io vi suggerisco di fare cosi, ci disse però sappiate che se vi .rivolgete a quest'altra persona vi darà il consiglio esattamente contrario". Consapevoli ormai del pluralismo scientifico sull'argomento, ci fidammo del suo parere. Chiarito l’equivoco, anche i rapporti con la struttura pubblica migliorarono. Dato che il tono muscolare di Dario era solo lievemente al di sotto della norma, decidemmo di non ricorrere a nessun trattamento fisioterapico, incoraggiati in questo dalla crescita costante ed armonica, seppure un pochino lenta del nostro bambino; ci sembrava cosi di rispettare i suoi temi, consentendogli un ritmo di vita non necessariamente "diverso". Non è stata questa una scelta facile, ma è stata una scelta ponderata; la prima di una serie di decisioni che, senza poter essere mai "sicure" e tantomeno valide in tutti i casi, hanno tuttavia bisogno della valutazione precisa e attenta di tutte le possibili conseguenze. Da allora periodicamente ci chiediamo: "Ma stiamo aiutando Dario abbastanza, con stimoli sufficienti e adeguati? Non sarebbe stato meglio se ...? " Siamo coscienti che questi dubbi ci tormenteranno sempre, in avvenire, ma abbiamo ormai accettato anche questi come parte viva, stimolante di noi stessi e della nostra vita presente e futura. Era nel frattempo arrivato l'esito della "mappa cromosomica" di Dario che confermava la presenza della sindrome .diagnosticata alla nascita nella forma più diffusa e non ereditaria: la trisomia 21 libera o primaria. Ouesta fu sicuramente una buona notizia per noi: non dovevano preoccuparci per i futuri figli, che sicuramente desideravamo, perchè l'handicap di Dario era dovuto solo alla casualità (e le statistiche per genitori della nostra età parlano di 1 su 2.000 !). Ma ha un senso parlare di caso quando quella persona, seppure piccola, ci aveva donato tanto ? Il nostro cuore e la nostra fede ci suggerivano di no ! E intanto Dario cresceva: si manifestavano i primi problemi. Si affaticava molto nel nutrirsi al seno e al biberon e, anzichè. aumentare, calava di peso. Fummo obbligati a forzarlo un attimo, non senza dispiacere perchè a volte rigurgitava con violenza il latte: tuttavia era per il suo bene. Ora, un anno dopo, il nostro bimbo sta bene, mangia di. tutto, con gusto e da solo, anche se senza le posate ma con le mani. E' in grado di camminare appoggiato ai mobili e tenuto per mano, e comincia ad apprendere il linguaggio ricettivo (comprende cioè il significato di alcune parole). Oltre a ciò ha una espressività ed una mimica veramente eccezionale oltre che un spiccato senso musicale, che gli permette di distinguere i suoi "pezzi" preferiti e di battere il tempo o "ballare". E' un bimbo
simpatico e, quel che più conta, sicuramente felice. Certo ... l'unica
cosa veramente importante è la felicità del nostro bambino, e la
nostra insieme con lui. E questa è una realtà che sperimentiamo
quotidianamente, quando lo vediamo godere del gioco, o ridere fino a
sciogliersi per le "coccole" ricevute, oppure sorridere in
modo birichino mentre "sveglia" la mamma che fa finta di
dormire. Ogni piccolo segno di progresso, ogni nuova meta conquistata
dal nostro bambino, anche se .raggiunta con tante stimolazioni, fa
sorgere in noi una gioia profonda, vera, che nasce dalla fatica fatta
insieme per raggiungerla, e in più genera ogni volta stupore e
gratitudine.E’ una esperienza continua, più diluita nel
tempo rispetto alla, crescita di un bambino "normale" ma
proprio per questo più cosciente e più intensa. E dalla coscienza
intima di questo cammino un'a1tra grossa "scoperta"'per noi
genitori. Noi abbiamo capito subito che la nostra felicità ed il nostro
compito è quello di rendere i nostri figli persone complete,
indipendenti., autonome e nello stesso tempo capaci ci relazionarsi in
modo costruttivo con gli altri. A tanti genitori non è sufficiente una
vita intera per riuscire a gioire dell'autonomia dei propri figli ... in
questo senso siamo dei privilegiati. Ma il privilegio più grosso è
"sicuramente la possibilità che ci è stata donata di vivere con
un'intensità quasi senza precedenti tutti i momenti della nostra
giornata: così la gioia è più gioia, il dolore più dolore, la vita
più viva. E questo per noi e motivo quotidiano ai sincera gratitudine. Naturalmente assieme a tanti "vantaggi" ci sono stati, ci sono e ci saranno anche i problemi, le sofferenze. Prima fra tutti la fatica di ripristinar e il rapporto di coppia, quel rapporto che pur arricchito nella sostanza, rimane spesso impoverito nella forma, nel dialogo in particolare, dal dispendio di energie fisiche e psicologiche messe al servizio del nostro bambino. E' una fatica di tutti i genitori, questa, per noi esaltata da quell'ansia sottile, spesso demoralizzante, a volte angosciante, che periodicamente ha il sopravvento nel nostro cuore e che pur ci accompagnerà probabilmente per tutta la vita. Anche al nostro essere genitori poi è mancato qualcosa; spesso è mancato proprio il piacere di "sentirsi" genitori ,quello che viene dal rispondere a domande del tipo "come va il raffreddore ?" oppure "e la pappa te la mangia?" e cosi via, per il semplice motivo che queste domande spesso non venivano poste. E' questo un piccolo-grande muro di imbarazzo e di falso pudore che tante persone alimentano ancora quotidianamente, anche se inconsciamente e che va creando quella sottile discriminazione verso nostro figlio e verso noi stessi, che la nostra sensibilità di genitori ingigantisce oltre misura. Spesso ci è sembrato di percepire questa poca naturalezza nei rapporti, cosa di cui abbiamo tra l'altro un assoluto bisogno, per il nostro equilibrio, per sentirci ed essere pienamente genitori, non terapeuti e nemmeno persone "senza figli". Sappiamo anche che queste difficoltà, queste discriminazioni ancora in embrione, sono ben poca cosa rispetto a quelle che l’uomo è in grado di mettere in atto, in cattiva ma anche in buona fede. E per questo ci sembra giusto smascherarle subito, denunciarle, aiutare chi ci sta intorno a capire che la "normalità" futura del nostro bambino dipende, in grande misura, dalla normalità dei. nostri rapporti con lui. E anche qui, per noi genitori una precoce presa di coscienza: pur nella tenerezza di chi ama veramente, la nostra educazione dovrà essere precisa, sempre coerente, mai transigente verso atteggiamenti non corretti per un bambino della sua età. Nessuna compassione, nessun "poverino", nessun "vizio" aiuterà Dario a crescere. Al contrario una disciplina affettuosa, ma chiara, lo aiuterà un giorno a rapportarsi con gli altri senza essere emarginato, perchè. questo è il modo "normale" di educare un bambino. Sotto questo punto di vista Dario diventerà quello che noi gli permetteremo di diventare. Troppo spesso l'handicap è più dentro il cuore delle persone sane che non in chi ne è "portatore". Un' altra cosa ci è stata subito chiara, al contrario di molti genitori nostri coetanei e non: Dario è una persona, altro da noi; e sulle persone non si fanno progetti, non si nutrono ambizioni. Sappiamo fin da ora dove si manifeste ranno i limiti di nostro figlio, e pur nella speranza illimitata e operosa di genitori, e di genitori provati dalla sofferenza, siamo stati aiutati a capire che la realizzazione piena dell'umanità di Dario (come quella di ogni persona) non sta in "cosa" diventerà o farà nella vita, ma nel "come" lo farà. E’ una delle tante cose che Dario, in pochi mesi di vita, ci ha già insegnato, e che noi abbiamo riportato a tutti sul bigliettino che annunciava il suo battesimo. Abbiamo per questo usato una frase di Douglas .Mallock, famosa per essere stata citata da Martin Luther King in un suo discorso: "Se non potete essere un pino sulla vetta del monte siate un fiore.nella valle ma siate il migliore piccolo fiore sulla sponda del ruscello Non con la mole vincete o fallite. Siate il meglio di qualunque cosa siate" E noi da genitori fieri che siamo, vogliamo fermamente che questo "meglio" di Dario venga fuori, per essere donato a tutti e potere così dare al mondo il contributo originale, decisivo ed insostituibile che gli è stato affidato e di cui è portatore. Ma per fare questo è necessario che tutti, genitori, parenti, amici, insegnanti, comunità ecclesiale e civile collaborino per educare all'amore e al dono di sè questa creatura, che (come tutte le giovani creature ancora "innocenti") altro non aspetta se non di insegnarci un mucchio di cose che noi abbiamo già dimenticato o non abbiamo mai saputo. Grati alla Provvidenza per il dono del piccolo Dario chiediamo per noi e per tutti la capacità di educarlo in questa prospettiva e per lui la possibilità di. una vita felice.
Se fosse possibile, augureremmo a tutti gli aspiranti genitori di avere un bambino come Dario (e spero che dopo queste pagine sia un poca più chiaro il perchè), ma ognuno ha un suo cammino particolare da percorrere per la ricchezza di. tutti. Perciò il nostro augurio di cuore si trasforma così: possa ogni mamma e ogni papà vivere con un'intensità almeno pari alla nostra (in questo siamo stati aiutati da Dario) l'esperienza quotidiana della maternità e della paternità, insieme con la serena e responsabile coscienza della bellezza e dignità del proprio umile compito. la Mamma e il Papà di Dario
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